Perché associare: poche ma buone ragioni
Apice del piacere, esercizio sensoriale, consapevolezza di sé. Intraprendere il frastagliato sentiero dell’associazione cibo-vino non è un dovere imposto dall’alto, né un’auto-valutazione delle proprie conoscenze enogastronomiche. È, per così dire, una scelta orientata all’amor proprio. Inteso come concessione di estremo gaudio al palato, perché se assaporare una pietanza gustosa o sorseggiare un buon vino è già una gioia immensa, la combinazione dei due assaggi non può che dar vita a un tripudio di gioie. Inteso come allenamento dei sensi, perché il gusto non esplicherebbe la sua funzione se non preceduto dall’atto di osservare i colori nel piatto e nel bicchiere, e da quello di curiosare a fondo con le narici. E inteso come consapevolezza del corpo e della mente, di ciò che lo stomaco può e vuole contenere, di ciò che si può e si vuole percepire hic et nunc. Perché la predisposizione mentale a mangiare e bere varia seguendo un flusso di emozioni, sensazioni e vissuti in continua evoluzione.
Manuali d’istruzioni, no grazie
Associare per assonanza o per contrasto? Cibi pesanti con vini di corpo e cibi leggeri con vini meno strutturati? La letteratura, o meglio quel teatrino che potremmo intitolare “L’eterna lotta tra puristi AIS e avanguardisti ribelli”, è ampia e complessa, quasi un tedio. E a noi non interessa scrivere un trattato sui 10 comandamenti dell’enogastronomia. Ci interessa la sostanza: testare la reazione del palato al contatto con il cibo da una parte e con il vino dall’altra, in un unico processo di curiosità e scoperta. Un’associazione azzeccata è il risultato di una somma non di regole, ma di tentativi “primordiali”. Impariamo a (ri)conoscere le nostre sensazioni: un cibo è dolce, sapido, speziato, amaro, acido o grasso? Un vino è fresco, caldo, minerale, acido, tannico o morbido? Istruiamoci informalmente a individuare, accorpare e scindere i gusti. A capire cosa stiamo sentendo e se vorremmo sentire di più o di meno. A tessere una trama di preferenze tutta nostra. Perché vera madre dell’associazione, è la componente soggettiva.
Falsi miti: “questo va con quello” non esiste
Pullulano cliché, con radici ben salde nella terra dell’ignoranza: le bollicine sono da aperitivo, i bianchi si accompagnano a piatti leggeri o di pesce, i rossi sono mariti delle carni e delle pietanze di terra più cariche, i vini dolci chiudono la batteria all’arrivo del dessert. Ma in fin dei conti, chi l’ha detto? Ok, siamo d’accordo: Brunello di Montalcino e ostriche, o Passito di Pantelleria e Amatriciana, magari no. Qualche linea guida c’è: cibi grassi e unti con vini freschi e acidi, cibi sapidi con vini morbidi e strutturati, cibi succulenti con vini astringenti e tannici. Entrano però in gioco due variabili essenziali: la soggettività di chi degusta e quella intrinseca del vino stesso. Un’unica categoria di vini è declinabile all’infinito: le bolle non sono solo champagne, la stessa uva trattata da cantine diverse può dar vita a risultati completamente dissonanti, la stessa uva trattata dalla stessa cantina non produrrà vini con caratteristiche identiche ogni anno. Insomma, basta con le generalizzazioni.
Associazioni inattese: qualche proposta
Per carità, non criticheremmo mai Miss Noia e Miss Banalità senza avere delle armi sufficientemente divertenti e originali da sfoderare. Per i più avventurieri e meno scettici, abbiamo in serbo suggerimenti interessanti da provare per credere. (a) Pizza e bollicine – No, non parliamo delle bolle di una birra alla spina. Perché la pizza, classica o gourmet, al taglio o tonda, alta o bassa, richiama ulteriore effervescenza ed esige note minerali che ne smorzino l’effetto “lievitante”. Provate il bianco frizzante rifermentato in bottiglia “280 slm” di Costadilà con un bel trancio di pizza e mortazza (no, non ci formalizziamo) e ne riparliamo! (b) Bianco e carbonara – Smontiamo la credenza più obsoleta e infondata del mondo: la carbonara è da vino rosso. La carbonara può essere da spumante, da bianco e da rosso. Purché si scelga un vino in grado di compensare la dolcezza di pasta e uovo con un certo grado di freschezza e sapidità, e la grassezza del guanciale e del pecorino con acidità ed effervescenza. E qui, siamo dei veri local: Delica Bianco di Marco Colicchio, una lazialissima Malvasia Puntinata fresca e floreale, ma dal corpo all’altezza di un piatto prorompente come la carbonara. (c) Bianco e cacciagione – Magari senza dimenticare di scegliere un vino dotato di una certa struttura, per non farlo surclassare dall’estrema avvolgenza del sughetto di cottura della carne. Il Bellone “Nzù” di Marco Carpineti, affinato in anfore di terracotta, intenso e complesso nei suoi odori di frutta sciroppata e fiori di campo, è perfetto per una terrina di coniglio alla cacciatora!