Dopo la prima presentazione del saggio “La verità della bellezza colloquio sull’arte con Jacques Lacan” abbiamo avuto il piacere di incontrare la scrittrice dell’opera.
Desiderosa di mettere in parola ciò che soggettivamente l’ha toccata dell’arte, e come Lacan ha dato quel taglio che lei stessa utilizza nella sua clinica di psicoterapeuta, Valentina Galeotti risponde ad alcune questioni che sorgono dalla lettura immersiva di questo testo così innovativo, che vede l’arte urbana protagonista e parlante!
Q.1 Come ogni intervista, le chiedo prima di tutto cosa l’ha spinta a trattare questo tema: arte e psicoanalisi?
A.1 Il mio interesse per la psicoanalisi implicata all’arte ha avuto inizio all’Università di Urbino, dove dopo la Laurea rimasi come cultrice della materia presso la cattedra di Psicologia dell’Arte. Il “buon incontro” con il mio professore del tempo, Loredano Matteo Lorenzetti, con la sua parola intessuta alla letture di Merleau Ponty, Morin, Gadamer, Weil, Freud, furono i primi tracciati per me di una strada che non ho più lasciato e che continuo, ripetutamente, a solcare e cercare, laddove posso, in ogni disciplina.
Q.2 Perché Jacques Lacan e non altri autori della psicologia?
A.2 Il mio incontro con Lacan avvenne obliquamente, ossia attraverso i testi dei suoi interpreti. Solo dopo qualche tempo sono passata alla vorticosa lettura dei Seminari e degli Scritti da cui sono stata irrimediabilmente catturata. Ne apprezzavo il linguaggio baroccheggiante, enigmatico, spinta quindi inizialmente dal “piacere del testo” come direbbe Barthes. Ad oggi ciò che apprezzo di Lacan è sia il poderoso numero di rimandi, citazioni, riferimenti che il suo testo offrono, sia l’acume clinico con cui ha sistematizzato dei concetti fondamentali della psicoanalisi che con il movimento successivo a Freud avevano subito una lettura non sempre feconda.
Nello specifico dell’arte, Lacan ha avuto il merito di avere svincolato l’arte dalla lettura patografico-interpretativa delle opere. In altre parole Lacan riprendendo Nietzsche, Heidegger, Sartre, ha ribaltato il movimento della psicoanalisi rispetto all’arte avanzando riflessioni che partono dall’opera alla psicoanalisi e non viceversa. Al centro è l’opera d’arte nel suo stagliarsi come verità, come elemento portatore del reale, elevato però ad una forma sublime.
Q.3 Può spiegare la funzione del velo come velo sulla ferita che produce il Reale?
A.3 Il velo è un elemento molto importante per due motivi. Tenterò di annodarli. Il primo motivo tocca la clinica: nella vita di un soggetto, il velo sul reale è un fattore fondamentale a protezione di questo che altrimenti si ustionerebbe con l’incandescenza traumatica del reale appunto. Un esempio tra tutti è la schizofrenia dove non c’è velo, dove il velo è strappato, dove l’urto del reale ha infranto il limite simbolico e il soggetto è in preda a questa, che potremmo definire, esondazione. Nell’arte l’operazione non è dissimile. Ad esempio nella body art più estrema nel caso di Orlan. L’artista si sottopone a continui interventi chirurgici, modifica il suo corpo in modo continuo, catturata in un infinito mortale, il corpo dunque è oggetto-palea. Nella clinica la “possibilità rappresentativa” è una via che mette in forma ciò che in altre vie non sarebbe possibile. Rispetto a questo introduco la parola sinthomo, con cui si indica la soluzione particolare che un soggetto ha trovato nella sua vita per sopravvivere al reale. Come noto, Lacan utilizza Joyce e le sue ultime opere, specie Finnegans Wake, per indicare la forma inanalizzabile e irriducibile del sintomo, un sintomo dello scrittore “disabbonato all’inconscio”, “che non riguarda nessuno”, trasformatasi appunto in sinthomo.
Un altro punto in cui il velo è trattato da Lacan è in connessione all’oggetto A.
Per interrogare questa questione ho da fare riferimento al Seminario IV, dove Lacan sostiene che il velo è “una delle immagini più fondamentali della relazione umana con il mondo”.
Nel testo è utilizzato nella sua funzione di sipario sembiante del fallo, ossia come oggetto portatore di assenza. Il sipario contiene l’assenza di ciò che non c’è, il fallo. Nelle opere di Christo, i famosi impacchettamenti, l’oggetto velato (impacchettato) diviene oggetto del desiderio che irrompe sulla scena per la sua assenza dunque, il sentimento “di quel niente” come direbbe Lacan “che sta al di là dell’oggetto d’amore”.
Q.4 L’arte urbana: quando ha fatto irruzione nella sua logica di analista come significativa di un Reale particolareggiato?
A.4 Ho incontrato l’arte urbana attraverso i muri di Roma. I grandi muri, i tags, la sticker art di Trastevere, mi hanno da subito attratta. In modo particolare i tag, la rotondità della lettera, la sinuosità della curva, il movimento conferito dal tratto repentino della bomboletta. Nel guardare i tag a mio parere non si può fare a meno di pensare all’immagine segno, all’immagine irriducibile del soggetto, alla sua traccia più ridotta ed essenziale.
Allo stesso modo, alla vista delle opere di Banksy ho individuato molto dell’essere indecifrabile, non-collocabile, ripetutamente introvabile laddove lo si aspetta, prerogative prossime all’analista lacaniano.
Come sostenuto da Barthes: “Ogni muro è il supporto ideale della scrittura moderna. Ogni muro attira la scrittura”. Credo che questo sia molto corretto nel momento in cui il muro è il supporto più antico mai esistito, pensiamo ai ritrovamenti di Lascaux, si può affermare che è lì, che è nato il linguaggio.
Per rispondere alla sua domanda, credo che non vi sia molta differenza tra il reale rappresentato nell’arte urbana piuttosto che nell’arte figurativa, moderna o contemporanea esposta in un museo. La variante è data sempre dall’opera e dal reale da cui essa è abitata. L’arte urbana eccessivamente “decorativa”, da “divertissement” ad esempio, corre a mio parere il rischio di perdere questa quota di potenza, di urto, di ferita che solo il reale può conferire ad un’opera.
Q. 5 (P. 75) “Da qui sorge un interrogativo. L’opera d’arte dell’artista, dunque l’atto creativo inteso come atto di resistenza, non parrebbe servire a circoscrivere la morte e dunque a sopravvivere alla Cosa e bordarla, solcarla, o nella poetica della lettera, a farla vivere in altra forma unica e singolare?” A seguito della continua evoluzione del suo studio formula una risposta diversa da quella ipotizzata a questa domanda.
A.5 Rispetto all’ipotesi avanzata dal libro che l’arte sia una possibilità di bordare il buco centrale, sentirei di confermarla e sottoscriverla! D’altra parte credo che lo studio e l’approfondimento dell’arte urbana e contemporanea in genere sia un campo estremamente fertile, potenzialmente inesauribile per un clinico. L’intento, ripetiamolo ancora, non sarà quello di interpretare l’opera, ma di permettere ad essa di raccontarsi, lasciarla farsi, lasciarla apparire nella sua verità, pur rimanendo nella sua discontinuità e come sostiene Adorno, “mai completamente comprensibile”, “muta”.
Q. 6 Cosa si intende per estetica psicoanalitica del reale?
A.6 Nel libro è contenuto il riferimento allo street artist Nicola Alessandrini. Nicola da piccolo aveva la scuola vicino ad un mattatoio, e quando usciva a giocare nel cortile udiva i versi delle bestie che venivano portate al macello. A quel suono disperante si univa la vista del rigagnolo di sangue prodotto dallo scarico del mattatoio vicino ad un ruscello in cui Nicola giocava. Queste due scene, una di natura uditiva, l’altra visiva, sanciscono il fissarsi di due significanti traumatici, l’urlo e la carne. Le opere di Nicola riporteranno la carne e l’urlo ripetutamente. Le sue opere conterranno muscoli, sangue, carne, legamenti, ossa in una forma sublime capace, almeno dal mio punto di vista, di evocarne il suono. Un suono che “non si poteva dire” se non in quel modo.
E buona lettura!