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L’un Virus: il soggetto contemporaneo al tempo del Covid-19

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Ma perché in un tempo come il nostro secolo la disponibilità della rete non consente l’acquisizione di info rassicuranti producendo invece uno stato di paranoia?
L’un Virus il soggetto contemporaneo al tempo del Covid19

Questo pezzo nasce da un forzato pomeriggio libero dal lavoro che svolgo in ospedale. 

Evidentemente la paura di essere toccati dal virus movimenta i più o meno soggetti al rischio di contagio a chiamare e disdire un appuntamento fissato previe ardue peripezie da mesi e mesi. Cosa “tocca” il temuto virus?

La quantezza della non impermeabilità della persona, il contatto con il non-essere esente dalla materialità della cosa. Il virus, come fenomeno non soggetto al controllo per le sue qualità di invisibilità e non sintomaticità al momento del contagio, esplode nell’uomo come paura.

Eppure, come ricorda Galimberti in un’intervista recentemente editata, si può parlare di paura quando si ha un oggetto, nel caso del Covid-19 abbiamo un soggetto del discorso che risponde alle caratteristiche della non visibilità come classicamente riconosciuta.

Nel 1662 Arnauld e Nicole pubblicarono un testo sotto il nome di -La logica di Port Royal- in cui esaminarono l’assurda proporzione tra paure e pericoli; potremmo paragonare l’asimmetria del timore di un fulmine alla percentuale di essere colpiti da una saetta; ai comportamenti attuati a seguito della trasparente e obnubilante paura del coronavirus. 

Supermercati saccheggiati, scaffali semi vuoti, sguardi atterriti alle casse, beni di prima necessità alimentare come farina e legumi giunti al termine delle scorte, servizi delivery in grande boom persone di fretta che sembrano in fuga, ma da cosa si fugge?

Dal con-tatto.

Il protagonista di questo momento geo-storico è il 2019-nCoV virus originato da un animale: il pipistrello che passa all’uomo, dall’uomo all’uomo. 

Ma perché in un tempo come il nostro secolo la disponibilità della rete non consente l’acquisizione di info rassicuranti producendo invece uno stato di paranoia?
“Spillover and pandemic properties of zoonotic viruses with high host plasticity” Nature- Scientific Reports: 14830 (2015) C. Kreuder Johnson, P. L. Hitchens, T. S. Evans, T. Goldstein, K. Thomas, A: Clements, D. O. Joly, N. D. Wolfe, P. Daszak, W. B. K. & J. K. Mazet

Così l’OMS dichiara lo stato di pandemia del coronavirus ovvero un’epidemia con tendenza a diffondersi rapidamente attraverso vastissimi territori o continenti, ma non è alla base dell’essere umano l’entrata a contatto con degli agenti potenzialmente infettanti? Se adottassimo una lente strettamente biologica ogni forma di vita è in qualche misura “infettata” dagli organismi con cui entra in contatto.

Una prima reazione all’infestazione del Paese è stata quella di uno stato paranoide, pre-psicotico fatto di voci e credenze fondate su un reale non protetto dal simbolico. La voce dei media e della rete ha preso prepotentemente il posto del discorso medico, il quale, almeno in questo caso aveva il diritto del primato. Ma non sorprende tale reazione poiché in uno stato di allarme e di pericolo collettivo le “voci”, prendono vita spontaneamente e si diffondono alla velocità del virus stesso. 

Le notizie ufficiali vengono soppiantate dalle voci, come ai tempi della guerra: I bollettini dicono che tutto va bene, ma la realtà è che intorno la gente muore.

L’esercito francese produsse un proverbio: “Tutte le notizie possono essere vere, tranne quelle dei comunicati ufficiali”. E allora il decreto del governo non tocca la paura del popolo. Questo è l’aspetto paradossale e straordinario dell’essere umano, ad eccezione del campo della psicologia: l’uomo ha paura di qualcosa, ma la risoluzione fornita da un soggetto che occupa una posizione di direzione del paese (Governo) non soddisfa il fabbisogno della paura, perché la paura si autoalimenta. 

La mentalità collettiva è nutrita da pane e paranoia diffondendo così un’infezione psichica che fa perdere il senso delle cose. La comunicazione in rete peggiora la questione, perché la sua non trasparenza getta i semi sul terreno del panico. Il vettore che amplifica il panico è la rete, ai tempi dei social network, ogni individuo che ha perso il controllo si affida a prendere in prestito il discorso costruito dai media generando così un numero importante di soggetti umani che non costruiscono una logica attuale e contemporanea di quanto accade. 

L’era attuale permette un aspro e spontaneo confronto con la peste manzoniana, non fosse altro che per l’amara sorte del territorio similmente colpito del nord-Italia, giunse in Europa in sella ai topi, come oggi il contagio arriva dai loro simili arredati di ali: i pipistrelli. 

Ma perché in un tempo come il nostro secolo la disponibilità della rete non consente l’acquisizione di informazioni migliorative, contenitive e rassicuranti producendo invece uno stato di paranoia? Perché di per se non è l’atto di informazione che rassicura e disangoscia ma il soggetto che lo riferisce. Come se trasversalmente leggessimo un grande effetto di transfert in una psicoterapia di Massa. 

La rete allude ma non dice, offre ma maschera, rinforza i buchi di sapere senza aiutare nell’apertura di interrogativi soggettivi ma genera incertezze, sospetto e nutre la sensazione di pericolo giungendo così a configurarsi come la più classica delle definizioni di psicosi e paranoia. D’altronde l’uomo contemporaneo è investito dalla tossicodipendenza dell’immediatezza e della soddisfazione imminente.  

Fruisce dei tg, della radio o di internet diviene bulimico: produce un discorso acefalo vomitato dietro un nome -social network- ma non attua un comportamento socialmente congruo alla salvaguardia e alla non continua proliferazione del virus. Potremmo dire che il tratto connotativo di internet, ai tempi del corona virus, sia la paranoia e l’ansia: incardinata, non soggetta alla messa in discussione e alla mobilitazione di comportamenti produttivi ma riduce l’uomo ad una fuga notturna dal nord Italia verso il sud, finora incontaminato. Sarebbe facile dare una lettura causalistica come la chiusura politica del nord Italia verso lo straniero paragonata all’ assalto dallo straniero virus proprio nel cuore del nord. Tuttavia, la trasversalità del virus sta permettendo al Paese di unirsi nella cattiva sorte e allora il territorio milanese si svuota dei “suoi cittadini acquisiti” che tornano nelle città natali favorendo si un effetto contagio di massa ma anche una delicata lettura del sud come tendente all’unificazione. 

È possibile che questo effetto virus-di-massa italiano abbasserà le quote di angoscia e permetterà la responsabilizzazione dei comportamenti quotidiani e dell’unione tra essere umani che si vedono costretti a non darsi la mano e relazionarsi a un metro di distanza. 

Si pone qui una questione cara alla psicologia più storica: la psicologia delle masse differisce dagli aspetti psichici della folla: la massa ha un quid comune che determina l’aggregazione, la folla invece è la casuale unione indotta da un fenomeno primario come gli scoppi delle armi in guerra. 

Il virus ha la proprietà di bucare i confini sfruttando i deboli legami della comunità, gettando l’uomo nel panico; stiamo quindi assistendo all’intersecazione del discorso biologico con quello comunicativo e come spesso accade negli inizi, non si sa chi siano i protagonisti, gli antagonisti e la voce narrante; il tempo ed una posizione critica permettono ad ogni ruolo di occupare un posto. 

Cosa succede al discorso umano in un periodo cosi totalizzato dalla paura? Il coronavirus è nel discorso, un nome comune, è uno spaccato simbolico dell’uomo moderno, c’è ma non si vede, più tenta di essere rimosso, più si fa sentire e ritorna. 

Il virus e l’era di internet hanno in comune la viralità (essere virale) e la velocità, in questa logica non è forse una forma di simbolo del contemporaneo? 

Come maestralmente descritto da Rocco Ronchi il virus ha la forza di ricordarci la materia delle cose: “casomai ci fossimo colpevolmente scordati della nostra mortalità, finitezza, contingenza, mancanza, ontologica deficienza ecc. ecc., ecco che il virus ce le rammenta, coartandoci alla meditazione e rimediando così alla nostra distrazione di consumatori compulsivi. Queste considerazioni non sono affatto illegittime. Sono, anzi, tutte pienamente fondate. In questo consiste però anche il loro difetto. Se funzionano è perché riducono l’ignoto al noto. Esse fanno del virus l’evidenza intuitiva”.

L’effetto della clausura domestica potrà essere analizzato in la nei mesi, di sicuro offre uno spunto di riflessione la difficoltà del soggetto contemporaneo ad assoggettarsi alla mancanza, alla limitazione, alla negazione di libertà, la legge della natura non corrisponde ai desideri dell’uomo contemporaneo che, come fosse un detenuto, vive le mura domestiche come privative e limitanti. L’alzata del muro fra le case e il mondo esterno non è per la natura, ma per i suoi abitanti, chiunque è potenzialmente pericoloso e allora ciò che sembra difficile da accettare è la non controllabilità degli esseri umani: non sapendo con chi si è entranti in contatto, e non potendolo controllare si erige un muro.   La logica del virus è simile ad una citazione di Camilleri: “Non bisogna mai avere paura dell’altro perché tu rispetto all’altro sei l’altro. Sempre citando uno scritto di Ronchi “Nel tempo del virus il “prossimo” è infatti ridotto radicalmente alla dimensione del “chiunque”. Il muro, in tutte le sue forme compreso il metro di distanza al bar, viene allora costruito per supplire la stretta di mano impossibile con quel “chiunque”. 

Forse l’avvento del Covid-19 è la possibilità per il soggetto contemporaneo di accorgersi che ha falsamente creduto di scegliere della propria libertà, come se la volontà fosse un atto non soggetto a continui attacchi e impedimenti, e allora il virus si può declinare in una dialettica uomo-fragilità della materia che consente l’accesso ad una dimensione simbolica quando il reale è cosi insostenibile perché tocca la morte a cui ognuno è destinato talvolta non potendo udire il silenzio di “un” virus.

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“Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione”, presa dal “Je est un Autre”, divisa nella psicoanalisi e nelle neuroscienze, critica, intellettualmente dissidente, amante della lettura e scrittura. Sofia di nome e di fatto.