“Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”.
Con queste parole di Paolo Borsellino, suo fratello Salvatore, martedì 14 aprile 2015, ha esordito e inaugurato la mattinata di dibattito che si è tenuta presso il cinema Augustus, alla quale hanno partecipato i quarti e i quinti del liceo Mancinelli e Falconi.
Salvatore Borsellino è un signore discreto, riservato; si è autodefinito timido, ma appena ha cominciato a parlare è riuscito a catturare l’attenzione di tutti i presenti e a mantenerla per tutta la durata del discorso. Un discorso che ha saputo emozionarci, indignarci e sbatterci in faccia la realtà. Quello che successe a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino è ormai storia ed è impossibile essere all’oscuro degli avvenimenti. Ma confrontarsi con chi quella tragedia l’ha vissuta da vicino e ha potuto osservarla, la rende concreta e tangibile, la avvicina alla nostra quotidianità; sentir parlare dell’anoressia della figlia di Paolo, delle lacrime di sua madre, dei rimorsi dello stesso Salvatore, è stato duro ma necessario: ormai siamo abituati a convivere con la morte, grazie ai giornali e alla televisione che propinano quotidianamente resoconti dettagliati di stragi e omicidi; per questo corriamo il rischio di diventare insensibili ad essa, di decontestualizzarla. A volte dimentichiamo che dietro i grandi eroi c’era una famiglia, una vita, dei sogni, delle speranze, tali e quali alle nostre. Speranze infrante, sogni calpestati da un male dilagante e turpe, che come un tumore si sta espandendo e radicando: questo male è la mafia. La mafia che distrugge il nostro Paese. Il mostro che paralizza lo sviluppo economico, che manipola la politica, che gambizza i sogni e i progetti di milioni di persone. Una creatura tanto ripugnante quanto potente, che teme solo un’arma: la cultura. Pertanto, la ferita peggiore che possiamo infliggerle è ricordare, informarci, conoscere e, soprattutto, nonostante tutte le minacce e le intimidazioni, avere coraggio. Lo stesso coraggio di quei due magistrati palermitani, lo stesso coraggio di quel signore che parlava alla platea, ripercorrendo gli episodi degli anni ’80 e ’90: il pool di Palermo, i tentativi di sabotaggio del magistrato Corrado Carnevale, il caso Andreotti, il terrorismo politico, la forza del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa e, infine, le stragi di Capaci e di via d’Amelio.
A questo punto però, quell’uomo pacato che era riuscito a mantenere la calma, crolla. La sua voce comincia a fremere in maniera incontrollabile. Il turbamento lo ha assalito a un preciso, insostenibile pensiero: la responsabilità dello Stato. Suo fratello morì, come morirono i ragazzi della sua scorta, come morì il suo “fratello ideologico” Giovanni Falcone e come morirono altre migliaia di innocenti per mano della mafia, con l’unica consolazione di aver messo in ginocchio Cosa Nostra. Il pool di Palermo aveva rischiato il tutto per tutto ed era a un passo dal farcela, avevano catturato i maggiori esponenti dell’organizzazione, mancava solamente il colpo di grazia che sarebbe dovuto arrivare per mano dello Stato. E quest’ultimo, invece, cosa fece? Legato a doppio filo alla criminalità organizzata, invece che infierire per schiacciarla una volta per tutte, lasciò che essa riprendesse piede, che, per usare le parole dello stesso Toto Riina, “Tutto si risolvesse” a favore di quei criminali, di quegli assassini che non uccisero solamente magistrati o prefetti, uccisero idee, uccisero valori. E sbagliamo a pensare che tutto questo non ci riguardi, perché con quegli omicidi venne assassinata la nostra stessa libertà.
Per volontà della madre di Borsellino, in via D’Amelio venne piantato un ulivo, simbolo della pace, simbolo del coraggio di cambiare le cose. E se quell’ulivo perisce o viene danneggiato, bisogna immediatamente sostituirlo e ancora e ancora, finché la mafia, la camorra, la ndragheta, il marcio di questa società, non verrà estirpato.
“Ma come si può fare qualcosa di concreto, nel nostro piccolo, per combattere la mafia?”, ha chiesto un’alunna. La risposta di Salvatore Borsellino è stata decisa: “esistono milioni di strumenti che ognuno di noi ha a disposizione per ribellarsi: intervenire negli episodi di quotidiana ingiustizia, invece che optare per una più comoda indifferenza, ad esempio, oppure rifiutare favoreggiamenti poco leciti, nonostante possano arrecarci benefici. Bisogna lottare contro la parte negativa, debole, di ognuno di noi. Non chiedete a me cosa potete fare”. Un’altra alunna di un quinto ha poi voluto leggere ad alta voce una lettera davvero bella, a proposito dell’attuale condizione dei giovani, che è stata molto apprezzata dal pubblico.
Salvatore Borsellino è stato illuminante per la sua forza, per la sua gentilezza, per la sua umiltà; ma ha avuto anche, inaspettatamente, l’ardore di fare qualcosa che nessuno faceva più da tempo: ha riposto fiducia in noi. A differenza della quasi totalità delle persone della sua generazione, non ci ha sprezzantemente guardato dall’alto in basso, bensì dritto negli occhi, lanciandoci un appello che è impossibile ignorare: che suo fratello non sia morto invano. Affinché si lotti contro le ingiustizie, ma soprattutto, con la mafia che è in ognuno di noi. Per informarsi, essere coerenti con le proprie idee e mantenere la propria integrità morale, a dispetto di tutto e tutti.
L’Italia non ci piace, per questo dobbiamo iniziare ad amarla.
Ludovica Di Ridolfi