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La ferita di Piazza di Spagna: vittime o colpevoli?

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Prima della rabbia, prima dell’indignazione, prima della sofferenza, la prima reazione è stata lo sgomento. L’incredulità. L’impossibilità di credere che sotto fumogeni e immondizia si celasse la piazza centrale di Roma, una delle parti più belle della città. Piazza di Spagna, giovedì 19 febbraio. Invasa e devastata da un gruppo di ultras olandesi, come chiunque ha potuto apprendere nelle ultime ore. La piazza che sfoggia la fontana della Barcaccia, opera risalente al 1610, restaurata da pochissimo tempo e dopo mesi di lavori e danneggiata in un secondo e per sempre, da una mandria di tifosi impazziti. Ho riguardato e riguardato le immagini più volte, prima di riuscire a riprendermi dall’incredulità. Ma le reazioni non hanno tardato ad affiorare e ad accumularsi, divampando nello stesso momento.

Ora, evitiamo di soffermarci sul fatto che il calcio sia ormai diventato un pretesto per sfogare la rabbia repressa (perché invece di andare a vedere le partite non passate dallo psicoanalista?), evitiamo di pensare che il restauro è costato 200 mila euro, ed è durato quasi un anno, evitiamo di pensare che, come se non bastasse, gli ultras sono stati poi cordialmente scortati con un autobus fino allo stadio. Non possiamo però evitare di sentirci feriti. Di provare una sensazione di spaesamento e di desolazione, causata dall’incapacità di capire cosa possa spingere un gruppo di persone ad abbassarsi al livello delle bestie senza alcuna ragione apparente, dall’amarezza nel constatare quanta rabbia, quanta inutile violenza può sprigionarsi nei momenti più inaspettati e offuscare le menti, accecare la vista. Infatti, l’unica spiegazione che è possibile avanzare è che simili individui siano stati incapaci di vedere e capire quello che avevano di fronte: il pensiero che una mente consapevole possa danneggiare una fontana del Bernini sarebbe troppo assurdo.

Ma dopo un primo momento, lo sdegno indirizzato verso questi vandali spregevoli inverte la rotta e si precipita, in maniera ancora più dolorosa, verso i reali responsabili degli accaduti: noi stessi. Noi abitanti impotenti di un paese allo sbaraglio, noi abbandonati dalla legge, noi arrendevoli, rassegnati ad abitare sotto un governo incapace di garantirci la protezione e la tutela più basilari, noi sempre pronti a svilire quello che abbiamo e ad esaltare le ricchezze estere. Paghiamo centinaia di euro per andare a Londra a vedere un paio di cattedrali e poi buttiamo le cicche delle sigarette sui nostri monumenti più belli e antichi; diamo 5 anni di galera a Fabrizio Corona ma accompagniamo ossequiosamente allo stadio chi viene qui come ospite, a vituperare e offendere secolari opere d’arte. Se episodi di simile portata si fossero verificati in qualsiasi altro paese civile, le conseguenze non avrebbero tardato ad arrivare, spietate e inesorabili; ma si sa, finché non succede qualcosa di eclatante, noi non ci scuotiamo. E adesso qualcosa di eclatante è accaduto.

Ma la rabbia che proviamo non deve, come sempre, bruciare e spegnersi con una giornata e qualche stato su facebook. Non si può liquidare tutto ancora una volta con un breve momento di patriottismo e qualche tweet di Renzi. Dobbiamo impedire che ancora una volta precipiti tutto nel dimenticatoio. La collera deve essere convertita in qualcosa di concreto: nella coscienza che la prossima volta ci farà buttare il pacchetto di patatine nel cestino e non per terra; nello scrupolo prima di strappare i fiori dalle aiuole pubbliche. Nella forza di ribellarci alle offese che tutti gli altri Paesi si sentono autorizzati a farci e che spesso e volentieri siamo i primi a fare.

La rabbia deve essere un concime per far sbocciare la consapevolezza che il nostro è un grande Paese, depositario di più del 50% delle opere d’arte al mondo e che va protetto, rispettato, salvaguardato; dagli “altri”, e soprattutto da noi stessi. Il risentimento deve diventare il carburante per la costruzione di un’enorme scavatrice, in grado di seppellire sotto strati di macerie e rovine la nostra debolezza, l’accondiscendenza, la noncuranza. Solo quando smetteremo di considerarci il paese dei balocchi, solo quando saremo stufi di farci mettere i piedi in testa da tutti, solo quando ritroveremo un minimo d’amor proprio, smetteremo di essere lo zimbello del mondo.

Ludovica Di Ridolfi

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