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“Io sto con la sposa”: arriva a Roma il film che ha conquistato Venezia

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Foto di Storyfinders Press Agency

«Se devi vivere, vivi libero; altrimenti muori come gli alberi, immobile»

Dopo il successo al Festival del Cinema di Venezia, a cui ha partecipato fuori concorso nella sezione “Orizzonti”, Io sto con la sposa arriva anche a Roma. Ha incuriosito il pubblico prima con una campagna virale sui social network, poi con il crowdfunding che ha coinvolto ben 2.617 sostenitori e infine con la partecipazione a Venezia e con l’arrivo in sala di un corteo di oltre 80 spose reclutate con un annuncio su Facebook.

Io sto con la sposa è “una storia fantastica, ma dannatamente vera”, un atto di disobbedienza civile ma soprattutto di coraggio, di libertà e di amore. Una storia mediterranea di amicizia che racconta un sogno, quello di un mondo senza più frontiere in cui tutti possono viaggiare in libertà. Alla conferenza stampa tenutasi martedì 7 ottobre al Multisala Barberini di Roma, erano presenti due dei tre autori: il giornalista e scrittore Gabriele Del Grande e il montatore e regista Antonio Augugliaro.

Come nasce Io sto con la sposa

Due amici, un palestinese nato in Siria e un italiano, si incontrano un giorno alla stazione di Milano per prendere un caffè e mentre parlano tra di loro, in arabo, un ragazzo li avvicina chiedendo da che binario sarebbe partito il treno per la Svezia. I due giovani ridono e lo invitano al bar con loro. Così scoprono che il ragazzo, Abdallah, era anche lui palestinese, nato e cresciuto in Siria, in fuga dalla guerra e superstite del naufragio dell’11 ottobre 2013 al largo di Lampedusa. Aveva il sogno di andare in Svezia, dove avrebbe chiesto asilo politico e avrebbe iniziato una nuova vita. Da questo incontro nasce nei due amici un’inquietudine, un bisogno di fare qualcosa di concreto per aiutare questa persona e quel qualcosa diventerà proprio Io sto con la sposa.

I due ragazzi, Gabriele Del Grande, scrittore e giornalista, e Khaled Soliman Al-Nassiry, poeta e critico letterario, decidono di aiutare Abdallah a realizzare il suo sogno e decidono di condurlo in Svezia. In questo atto di solidarietà, insieme anche ad Antonio Augugliaro, montatore e regista, coinvolgono altri quattro siriani e palestinesi in fuga dalla guerra in Siria e, per evitare di essere arrestati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, inventano una storia che permette loro di viaggiare attraverso l’Europa senza essere scoperti. Inscenano così un finto matrimonio, coinvolgendo un’amica palestinese che si sarebbe travestita da sposa ed altri amici italiani che si sarebbero mascherati da invitati. Chi avrebbe mai fermato un corteo nuziale in viaggio verso la Svezia? Inizia così il loro viaggio clandestino di quattro giorni e tremila chilometri e così inizia anche il film, che seguirà la loro avventura da Milano a Stoccolma.

Le difficoltà e i rischi

Raccontano i registi che le difficoltà sono state enormi, a partire da quelle di natura pratica ed economica come affittare una macchina, trovare i soldi per il viaggio, trovare i luoghi dove dormire, dover dormire poche ore a notte per arrivare il prima possibile e, non meno importante, trovare la sposa. Poi c’era il problema di produrre materiale per fare un documentario in una situazione in cui, fino alla fine, non si sapeva se quello che veniva fuori era di qualità, in quanto completamente reale e dunque improvvisato. Infine c’era il problema del tempo: i cinque profughi dovevano arrivare in Svezia il prima possibile, non potevano aspettare i tempi di una produzione, prima sarebbero arrivati, prima avrebbero potuto chiedere asilo politico per poi portare fuori dalla Siria in guerra anche i loro parenti.

Anche i rischi sono stati molti: per i profughi c’era il pericolo di essere identificati e rispediti in Italia, o quello di essere costretti a chiedere asilo politico in un Paese che non fosse la Svezia, mentre per i loro accompagnatori italiani c’era il rischio di essere accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Eravamo perfettamente consapevoli dei rischi che correvamo, siamo andati a farci fare una consulenza da un amico avvocato che, con il codice penale alla mano, ci ha spiegato che rischiavamo 15 anni di prigione». Però il gruppo ha deciso di buttarsi lo stesso in quest’avventura, perché scossi dai naufragi di quei giorni e da quello che stava succedendo in Siria ormai da tre anni, tutti sentivano il bisogno di fare qualcosa. «Ci siamo innamorati di un’idea e sapevamo che era la cosa giusta da fare», spiegano Gabriele ed Antonio.

Un film prodotto dal basso

Alla realizzazione del film hanno contribuito 2.617 sostenitori che hanno risposto all’appello lanciato in rete in primavera, attraverso una campagna di crowdfunding che ha permesso di raccogliere, in soli 60 giorni, il budget necessario a realizzare il film. La risposta da parte del pubblico è stata estremamente positiva ed inaspettata per gli autori. «Ciò che abbiamo visto già dal crowdfunding è che c’è tutto un mondo che ha la stessa nostra sensibilità rispetto a questi temi», racconta Gabriele Del Grande, «abbiamo raccolto 2.617 donazioni, quasi 100.000 euro, con cui abbiamo coperto buona parte delle spese di produzione del film, grazie a persone che avevano quello stesso sogno».

Gli autori, insieme a Cineama che distribuisce il film in Italia, proporranno il documentario a un pubblico mirato e per questo distribuiranno il film inizialmente in sole 23 sale in tutta Italia. Alla distribuzione classica si aggiungerà poi una distribuzione dal basso per oltre 80 associazioni che con il crowdfunding ne hanno “comprato” la proiezione. «Crediamo che questo sia un film che debba crescere con il passaparola, con il coinvolgimento delle persone che lo vedono e con il messaggio positivo che vuole lanciare».

Il Mediterraneo che unisce e che divide

Il mare è il sogno di questo film, l’idea che passa attraverso l’estetica della frontiera, come la chiama Gabriele Del Grande, autore tra le altre cose di Fortress Europe, un osservatorio sulle vittime della frontiera. «Noi abbiamo voluto cambiare l’estetica della frontiera. In questo film c’è il passaggio dal raccontare gli altri a raccontare noi stessi. Questo è un film che racconta noi, un gruppo di amici delle due rive del Mediterraneo: italiani, palestinesi e siriani». È un gruppo che si sente unito da quel mare, «lo abbiamo percepito come il nostro mare, con le nostre genti, i nostri morti». E proprio per questo è un film sul “noi” e non una fiction in cui ci sono gli italiani che salavano i poveri immigrati, o un documentario con interviste dall’alto in basso. Io sto con la sposa parla di un gruppo di amici che, insieme, sfidano quel mare frontiera che per anni ha diviso le due sponde ed è stato una vera e propria fossa comune. In questo film, invece, il mare unisce le due sponde in una bellissima storia di amicizia e libertà. «Ci raccontiamo come gente dello stesso mare e in nome di quell’amicizia, anche con ironia, leggerezza e con una maschera, cerchiamo di raccontare qualcosa di bello».

Una film di denuncia e di disobbedienza

Io sto con la sposa è un film che disobbedisce a leggi ingiuste, che devono essere cambiate. Come racconta Del Grande, il loro è un atto provocatorio che vuole però invitare a una riflessione seria: il fatto che il diritto non sempre ha un valore neutro, le leggi sono fatte da persone, vanno e vengono e per questo a volte devono essere cambiate. Quelle che il film vuole mettere in discussione sono le leggi dell’immobilità come le chiama Gabriele Del Grande, le leggi che fanno sì che non si abbia altra scelta se non affidarsi al contrabbando o andare a morire in mare. «Noi paghiamo la missione di Mare Nostrum per andare a salvare le stesse persone alle quali abbiamo chiuso in faccia la porta dell’ambasciata», spiega il regista, e continua: «Film di denuncia sull’immigrazione ne sono stati fatti tanti, questo più che un film di denuncia è una bella storia. Più che dire quanto è brutto il mondo vogliamo dire quanto è bello il mondo che abbiamo fatto esistere in quei quattro giorni».

Un film come questo, di denuncia e disobbedienza non può non avere anche delle implicazioni politiche, scatenare delle reazioni, che gli autori si aspettano ma che ad oggi non ci sono ancora state, con il film uscito nelle sale solo il 9 ottobre. È un film che vuole diventare un caso, incuriosire e mettere in discussione le leggi ingiuste e soprattutto fare in modo che le stragi in mare come quella del 3 ed 11 ottobre 2013 (e quelle più recenti dopo la guerra a Gaza di questa estate) non si ripetano più.

Una sposa che unisce i popoli

Uno dei momenti più toccanti del film è quando, in una delle scene iniziali, Khaled riceve la cittadinanza italiana. Lui, palestinese nato in Siria, non aveva mai avuto una cittadinanza prima, in quanto i palestinesi sono considerati apolidi in quasi tutti i Paesi arabi in cui vivono e quello di “avere uno Stato alle spalle” e “fare parte di uno Stato” rappresenta per lui un traguardo che abbatte finalmente le barriere di quell’Europa che lascia la gente morire in mare. Io sto con la sposa unisce le due sponde del mare e i popoli che le abitano in un viaggio carico di emozioni attraverso un’Europa fortezza che si chiude sempre più verso sud, ma che è anche un’Europa di persone solidali e coraggiose che rischiano la propria vita per realizzare il sogno di altri e che, infrangendo una legge sbagliata, lanciano il messaggio che quella legge deve essere cambiata. Non è un film vittimista, che commisera una situazione, ma una bella storia di amicizia che supera le frontiere e unisce i popoli. Conclude Antonio Agugliaro: «Con questo film abbiamo raccolto il messaggio di Ernest Hemingway: non chiederti mai per chi suona la campana, essa suona anche per te».

(Foto e trailer di Storyfinders Press Agency)

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